Giurisprudenza
01 MAGGIO 2020 alle 11:00
IL GIUDICE HA SENTENZIATO IN SETTIMANA :
Iva indetraibile non sempre aumenta il costo
Corte di Cassazione
n. 20435/2021
La Cassazione ritiene che un onere di cui si viene a conoscenza solo dopo l’acquisto del cespite per effetto del calcolo a consuntivo del prorata, non può essere considerato accessorio. L’Iva diventa quindi spesa generale e non computabile ai fini del calcolo del credito d’imposta.
Determinazione induttiva del reddito mai dichiarato
Corte di Cassazione
n. 28559/2021
La Cassazione ha chiarito che solo con il metodo induttivo l’Agenzia delle Entrate può determinare il reddito d’impresa mai dichiarato.
Comportamento concludente per volontà delle parti nel contratto
Corte di Cassazione
n. 28787/2021
La Cassazione ha chiarito che rileva anche ai fini tributari la reale volontà delle parti e questa si desume dal contenuto dell’accordo sottoscritto ma anche considerando il comportamento concludente adottato.
Detrazione Iva anche con contabilità irregolare
Corte di Cassazione
n. 28788/2021
La Cassazione ha confermato che se si dimostra il rispetto dei requisiti sostanziali di cui all’art. 17 della direttiva n. 77/388/CEE, anche dopo aver riscontrato una contabilità irregolare, l’impresa ha la possibilità di detrarre l’Iva.
Costituzione del trust dopo la notifica della cartella
Corte di Cassazione
n. 35260/2021
La Cassazione ha sancito che integra il reato di frode esattoriale la costituzione del trust dopo la notifica della cartella.
Esenzione da imposte per autorità portuali
Corte di Cassazione
n. 27035/2021
La Cassazione ha precisato che non è possibile qualificare come attività d’impresa le attività poste in essere da autorità portuali che non producono servizi portuali.
Nullità dell’accertamento per irregolarità sulla cassa
Corte di Cassazione
n. 29182/2021
La Cassazione ha disposto l’annullamento dell'accertamento notificato al professionista emesso dall'ufficio per le irregolarità nel conto cassa in quanto si tratta di una registrazione contabile facoltativa che non giustifica l'atto impositivo.
Prelevamenti non costituiscono prova di redditi
Corte di Cassazione
n. 25813/2021
La Cassazione ha sancito che i prelevamenti non costituiscono prova per ipotizzare redditi diversi nelle movimentazioni bancarie ingiustificate, a differenza invece dei versamenti.
Passaggio generazionale e studi di settore
Corte di Cassazione
n. 29470/2021
La Cassazione ha sancito che il cambio generazionale con eredi inesperti può portare a risultati negativi della gestione dell’impresa. Gli eredi possono infatti prendere decisioni errate e non valutare adeguatamente le spese.
Lezioni di nuoto imponibili Iva
Corte di
Giustizia UE
C-373/19
La Corte di Giustizia UE, confermando l’orientamento dell’Amministrazione Finanziaria tedesca, esclude i corsi di nuoto dalla nozione di “insegnamento scolastico o universitario”, esentato dall’Iva in base all’art. 132, par. 1, lett. i) e j), della direttiva n. 2006/112.
Giurisprudenza
01 MAGGIO 2020 alle 11:00
La Cassazione con l’ordinanza 18214/2021 ha deciso che la violazione dell’omesso versamento delle imposte preclude la possibilità di usufruire della definizione agevolata delle sanzioni a un terzo prevista dall’articolo 17 del Dlgs 472/1997. La vicenda trae origine da un ricorso avverso un atto di irrogazione delle sanzioni, ex articolo 17 del Dlgs 472/1997, con il quale veniva contestata l’illegittimità dell’atto in quanto l’ufficio, nell’irrogazione della penalità, inibiva la possibilità della definizione agevolata nella misura di un terzo, trattandosi – per lo stesso ufficio – di omesso versamento del tributo. A seguito della conferma, in entrambi i giudizi di merito, delle ragioni del contribuente, l’amministrazione finanziaria, ad avviso del sottoscritto con argomentazione non fondata, adiva la Cassazione, precisando che la violazione dell’omesso versamento, contestata attraverso l’atto di irrogazione delle sanzioni ex articolo 17 del Dlgs 472/1997, impedisce la possibilità di definizione in forma agevolata. I giudici di legittimità hanno innanzitutto precisato che l’agenzia delle Entrate ha l’ampia facoltà, quando contesta l’omesso versamento di un’imposta, di procedere all’irrogazione della sanzione utilizzando sia l’atto di irrogazione delle sanzioni (o l’atto di contestazione ex articolo 16 del Dlgs 472/1997 – in realtà oggi l’atto di contestazione non può essere utilizzato per penalità relative a violazioni sostanziali) sia il procedimento dell’iscrizione a ruolo. La Cassazione ha tratto la conseguenza che dalla previsione dell’ultimo periodo del comma 3 dell’articolo 17 del Dlgs 472/1997 risulta impedita la possibilità di definizione agevolata della sanzione relativa all’omesso versamento del tributo (quando viene utilizzato l’atto di irrogazione delle sanzioni).
Tali conclusioni, tuttavia, non appaiono condivisibili come anticipato sopra.
Il comma 1, 2 e 3 dell’articolo 17 del Dlgs 472/1997 così recitano:
1. In deroga alle previsioni dell'articolo 16, le sanzioni collegate al tributo cui si riferiscono sono irrogate, senza previa contestazione e con l'osservanza, in quanto compatibili, delle disposizioni che regolano il procedimento di accertamento del tributo medesimo, con atto contestuale all'avviso di accertamento o di rettifica, motivato a pena di nullita'.
2. E' ammessa definizione agevolata con il pagamento di un importo pari ad un terzo della sanzione irrogata e comunque non inferiore ad un terzo dei minimi edittali previsti per le violazioni piu' gravi relative a ciascun tributo, entro il termine previsto per la proposizione del ricorso.
3. Possono essere irrogate mediante iscrizione a ruolo, senza previa contestazione, le sanzioni per omesso o ritardato pagamento dei tributi, ancorche' risultante da liquidazioni eseguite ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, concernente disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi, e ai sensi degli articoli 54-bis e 60, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, recante istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto. Per le sanzioni indicate nel periodo precedente, in nessun caso si applica la definizione agevolata prevista nel comma 2 e nell'articolo 16, comma 3.
In effetti la previsione dell’ultimo periodo del comma 3 dell’articolo 17 del Dlgs 472/1997 deve essere interpretata nel senso che la definizione agevolata della sanzione (a un terzo) prevista da tale articolo di legge risulta impedita soltanto quando la penalità risulta iscritta a ruolo ai sensi degli articoli 36-bis del Dpr 600/1973 nonché dell’articolo 54-bis del Dpr 633/1972. La norma dell’articolo 17 del Dlgs 472/1997 fa riferimento proprio – quanto all’impedimento alla definizione agevolata – alle «sanzioni indicate nel periodo precedente», cioè alle penalità iscritte a ruolo per effetto degli articoli 36-bis del Dpr 633/1972 e 54-bis del Dpr 633/1972. Questo perché, in tali casi, opera la (precedente) possibilità di definizione dell’eventuale avviso bonario che precede l’iscrizione a ruolo.
In tal senso si è espressa – con un’analisi molto meglio appropriata – la Ctp di Reggio Emilia, con sentenza 214/1/09 del 19 novembre 2009.
Giurisprudenza
01 MAGGIO 2020 alle 11:00
Sentenza n.7183 del 15 marzo 2021 della sezione tributaria della Cassazione sul tema del Leasing finanziario e trattamento fiscale del maxicanone.
Particolarmente inaspettata si è manifestata una sentenza della Corte di Cassazione sulla deducibilità del maxicanone corrisposto da un’impresa utilizzatrice in un contratto di leasing finanziario: La sentenza della sezione tributaria della Cassazione n. 7183 del 15 marzo 2021 afferma che il cd. maxi-canone, corrisposto con il pagamento della prima rata, andrebbe “contabilizzato interamente nell'esercizio di competenza”, che coinciderebbe, secondo la citata sentenza, con l’esercizio in cui è avvenuto il suo pagamento. Uno “scivolone” interpretativo, senza dubbio. “Scivolone” interpretativo della Suprema Corte, che ci auguriamo non vada a costituire un pericoloso “precedente” per le pronunce a venire. Se, per sventura, sentenze future si fondassero sul principio espresso da quella attuale, si formerebbe una “giurisprudenza consolidata” della Cassazione in materia di deduzione dei maxicanoni di leasing, che in realtà troverebbe fondamento in un grossolano errore iniziale. Nel leggere la sentenza si nota tra l’altro una errato riferimento al “precedente” da cui attingere, probabilmente per velocizzare la stesura della sentenza Nella sentenza qui commentata si fa così riferimento alla sentenza n. 4043 del 2015, la quale a sua volta richiama la n. 9559 del 2011, di cui l’intera parte motivazionale è stata nel caso in esame esattamente trasposta. Purtroppo, documenti alla mano emerge che quest’ultima (9559/2011) riguardava una società di leasing, e cioè il soggetto concedente i beni in leasing, e non il soggetto utilizzatore, come era il soggetto qui giudicato nel suo comportamento fiscale e contabile. Dalla semplice constatazione che sempre più spesso l’incredibile carico di lavoro a cui è sottoposta la Sezione tributaria della Cassazione comporta un approccio metodologico “semplificato” rispetto alle questioni da decidere. Come detto la sentenza della sezione tributaria della Cassazione n. 7183 del 15 marzo 2021 riguarda la deducibilità del maxicanone corrisposto da un’impresa utilizzatrice in un contratto di leasing finanziario. Oltre i riferimenti sopra citati, ritroviamo nella lettura del documento una grande confusione fra il soggetto che concede il bene in leasing, rispetto al soggetto utilizzatore oltre che le seguenti erronee e confuse affermazioni:
- primo, che la precedente giurisprudenza della Corte in ordine alla deduzione del maxicanone è da considerarsi “risalente”, in quanto fondata su una normativa non più attuale, e quindi da abbandonare;
- ancora, che la legge n. 549/1995 (Finanziaria 1996) ha comportato la radicale trasformazione della relativa disciplina (che oggi si ritrova nell’art. 102 TUIR);
- inoltre che sul piano contabile, la rilevazione del leasing “non viene più effettuata in base al cd. metodo patrimoniale, basato sulla forma giuridica del contratto, ma con il cd. metodo finanziario, previsto dal principio contabile internazionale IAS 17, che riflette la sostanza economica dell'operazione”.
- in ultimo che il cd. maxi-canone, corrisposto con il pagamento della prima rata, va “contabilizzato interamente nell'esercizio di competenza”, che coinciderebbe, secondo la citata sentenza, con l’esercizio in cui è avvenuto il suo pagamento. Seppure è vero che la disciplina del leasing finanziario è stata modificata con la legge Finanziaria del 1996, bisogna ricordare che l’innovazione riguarda esclusivamente il soggetto concedente, cioè, testualmente (ex art. 102, comma 7, TUIR), i beni “concessi” in locazione finanziaria, e non quelli utilizzati in virtù di tale contratto. Nessuna “radicale trasformazione” normativa si è dunque avuta per i soggetti utilizzatori, per la semplice considerazione che non vi era allora, né vi è adesso, alcuna norma specifica di natura fiscale in materia, se non quella riguardante la durata minima del contratto di locazione finanziaria. Per quanto attiene al trattamento contabile, vengono richiamati concetti errati. Proviamo a ricostruire il quadro normativo (fiscale e contabile) che attiene il trattamenti del maxicanone. Dal lato dell’utilizzatore, il metodo patrimoniale rappresenta il modello oggi tuttora utilizzato in Italia dalle imprese che adottano i principi contabili nazionali, mentre l’informativa finanziaria deve essere fornita in nota integrativa, secondo il disposto dell’art. 2427, punto 22) del Codice civile. In definitiva, per i soggetti utilizzatori, vale il principio di competenza economica stabilito dall’art. 109 del TUIR, il quale rimanda a sua volta al più generale principio di competenza stabilito dall’art. 2423-bis c.c. secondo cui gli oneri dell’esercizio vanno imputati “indipendentemente dalla data del pagamento”, e quindi secondo un criterio esattamente opposto a quanto scritto nella sentenza in commento. Il principio contabile OIC 12, app. A), prevede espressamente che laddove il contratto di leasing prevede il pagamento di un maxicanone iniziale, solo la parte del maxicanone di competenza (economica) dell’esercizio è rilevata tra i costi, mentre la parte di costo non di competenza dell’esercizio è rinviata agli esercizi successivi. Alla luce di questi elementi, tra le poche certezze rimaste, non va affatto abbandonata la precedente giurisprudenza della Corte, secondo cui non è consentito all'imprenditore computare tra i costi dell'esercizio il canone iniziale relativo al contratto di leasing, ma occorre ripartire tale importo su tutta la durata del contratto (tra tutte Cass. n. 7209/1997; Cass. n. 10147/1999). Ci dobbiamo augurare che la sentenza in oggetto non vada a costituire un pericoloso “precedente” per le pronunce a venire e che venga presto smentita.
Giurisprudenza
4 FEBBRAIO 2020 alle 11:00
Per detrarre dalle imposte italiane il credito di imposta per le tasse pagate all’estero è necessario dimostrarne la legittimità mediante:
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Copia della dichiarazione prodotta all’estero e copia della quietanza di versamento delle imposte versate dando così dimostrazione della definitività delle stesse.
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Idonea documentazione attestante la percezione dei compensi e l’indicazione degli stessi nel reddito complessivo oltre che la misura delle ritenute subite;
In questi termini si è pronunciata la Commissione tributaria Regionale del Lazio con la sentenza nr. 4995/19 del 16/7/2019 depositata il 11/9/2019, confermando la pronuncia dei giudici di prime cure, sul tema dei crediti derivanti dalle imposte versate all’estero dal contribuente residente in Italia. In linea generale il credito per imposte pagate all’estero può essere riconosciuto al ricorrere di determinate condizioni e regole. In particolare tale riconoscimento avviene in relazione alle imposte che sono state effettivamente pagate all’estero che soddisfano contemporaneamente i requisiti della “similarità” dell’imposta estera rispetto a quella pagata in Italia e della “definitività” del pagamento del tributo estero. [1] Le imposte pagate all’estero a titolo definitivo sono ammesse in detrazione in quanto afferenti a redditi prodotti all’estero che concorrono alla formazione del reddito complessivo imponibile in Italia. Questa breve premessa per meglio rappresentare l’ambito della controversia in cui, suo malgrado, si è trovato coinvolto un cliente dello studio. Nel corso del secondo semestre 2011, al predetto cliente furono corrisposti in Francia, redditi in qualità di regista ed autore della sceneggiatura di una film prodotto e girato nel territorio Francese. Nella dichiarazione dei redditi del medesimo periodo di imposta, il cliente dichiarò i redditi percepiti in Francia (dopo averli dichiarati anche al fisco francese) e scomputò il credito di imposta derivante dalle imposte pagate all’estero da quanto dovuto a titolo di IRPEF. Nel corso dell’anno 2016, il cliente venne raggiunto da una cartella di pagamento mediante la quale l’amministrazione finanziaria, non soddisfatta di aver ricevuto, in fase di controllo preventivo dei crediti esposti in dichiarazione, tutta la necessaria documentazione oltre che gli elementi per la verifica della correttezza delle condizioni essenziali quali: - che il Reddito estero ha concorso alla formazione del reddito complessivo; -il credito Imposta estero non risultava superiore alla corrispondente imposta italiana dopo aver calcolato il rapporto secondo la consueta formula indicata anche nelle istruzioni ministeriali al modello dichiarativo; Impugnata tempestivamente la cartella, questione era trattata davanti alla Commissione tributaria Provinciale di Roma, la quale accoglieva il ricorso del cliente patrocinato dal titolare dello studio, compensando le spese di lite. L’agenzia delle Entrate proponeva così appello in secondo grado avverso il quale, lo studio, resisteva con controdeduzioni ed appello incidentale per contestare il mancato addebito delle spese alla parte soccombente. La Commissione Regionale riunitasi il 16/7/2019, respingeva l’appello dell’ufficio confermando fondate le difese del cliente il quale, secondo i giudici, già nel ricorso introduttivo aveva prodotto tutta la necessaria documentazione al fine di provare la corretta detrazione del credito di imposta esposto nella dichiarazione oggetto di rettifica ovvero:
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“Copia della dichiarazione prodotta all’estero e copia della quietanza di versamento delle imposte versate con il che dava dimostrazione della definitività delle stesse.”
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“Idonea documentazione attestante la percezione dei compensi e l’indicazione degli stessi nel reddito complessivo oltre che la misura delle ritenute subite; “
Da segnalare anche che il giudice d’appello si è pronunciato correttamente anche sulle spese, in merito alla questione incidentale proposta a tal proposito dallo studio per conto del cliente disponendo testualmente che: “ il primo giudice pur avendo integralmente accolto il ricorso del contribuente ha compensato le spese di giudizio senza però indicare le gravi ed eccezionali ragioni che ai sensi dell’articolo 15 del D.Lgvo 546/92, possono giustificare la compensazione in deroga al principio generale della condanna delle spese a carico della parte soccombente”. In conseguenza di tale pronuncia disponeva l’addebito delle spese di entrambe i gradi di giudizio. (Sentenza della Commissione tributaria Regionale nr. 4995/19 del 16/7/2019 depositata il 11/9/2019)
[1] Risoluzione Ag. Entrate 07/03/2008, n. 83/E e circolare 04/08/2016, n. 35/E.
Giurisprudenza
30 GENNAIO 2020 alle 11:00
Le cartelle di pagamento contenenti Contributi Inps si prescrivono in 5 anni
Cassazione con l'ordinanza n. 840/2019
Il termine di 10 anni non vale per la prescrizione delle cartelle Inps, ma per la procedura amministrativa di discarico per inesigibilità in materia fiscale. La Cassazione con l'ordinanza n. 840/2019 (qui allegata) respinge il ricorso dell'Agenzia delle Entrate che, contrariamente a quanto affermato dalla corte d'Appello, afferma che il termine prescrizionale delle cartelle Inps non sia quello decennale, bensì quello quinquennale. Il termine prescrizionale di 10 anni fa infatti riferimento, dopo una profonda revisione legislativa dei rapporti intercorrenti tra ente impositore e incaricato della riscossione, alla procedura amministrativa di discarico per inesigibilità applicabile tra l'altro, solo in materia di imposizione fiscale.
Giurisprudenza
02 FEBBRAIO 2020 alle 11:00
Un contribuente venivano notificati due avvisi di rettifica IVA, ritualmente impugnati. I ricorsi venivano rigettati dalla CTP ma successivamente la CTR annullava gli atti impositivi. Ricorreva innanzi alla Suprema Corte l’Ufficio che otteneva una pronuncia favorevole, atteso che la decisione d’appello veniva cassata con rinvio. Il contribuente non riassumeva però il giudizio. Pochi mesi dopo la scadenza del termine per il suindicato adempimento, veniva notificata la cartella di pagamento con la quale si richiedevano le somme contenute nei due avvisi di rettifica. Anche in tal caso il contribuente proponeva ricorso e la CTP rigettava le domande che però erano poi accolte dalla CTR. Nella specie i giudici dichiaravano prescritto il credito tributario. Ad adire la Cassazione era quindi nuovamente l’Ufficio, evidenziando che il proprio operato era stato corretto e nessuna prescrizione era nella specie maturata. Con l’ordinanza n. 1979, depositata il 29 gennaio 2020, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia, cassando con rinvio la pronuncia d’appello. L’omessa riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio comporta l’estinzione dell’intero processo, con conseguente definitività dell’avviso di accertamento originariamente impugnato, atteso che lo stesso non è un atto processuale e quindi non viene meno con il procedimento estinto. Ne consegue che il termine di prescrizione, così come quello di decadenza, della pretesa tributaria contenuta in detto atto impositivo, comincia a decorrere dalla scadenza del termine utile per la riassunzione non esperita: solo in quel momento infatti l’Amministrazione finanziaria può attivare la procedura di riscossione. Nella specie risultava pacifico, da un lato, che l’iscrizione a ruolo delle somme era avvenuta solo pochi giorni dopo l’estinzione del giudizio per assenza di riassunzione, dall’altro che la cartella veniva tempestivamente notificata dopo pochi mesi, quindi oggettivamente entro il termine dei due anni da quando l’accertamento era divenuto definitivo (art. 25, comma 1 lettera c, D.P.R. n. 602/1973). La CTR aveva dunque errato, non avendo considerato correttamente il termine dal quale iniziare a calcolare la prescrizione.
Giurisprudenza
30 GENNAIO 2020 alle 11:00
Fattura generica e accertamento del Fisco
Cassazione sentenza 23 gennaio 2020 n. 1468
La deduzione dei costi risultanti da fatture generiche è confermata se il contribuente esibisce documenti idonei a dimostrare l'esistenza, a monte, di contratti regolari. La Cassazione ha respinto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate. In merito alla genericità delle fatture, i giudici di legittimità hanno evidenziato che l'Amministrazione Finanziaria non si può limitare all'esame del solo documento, ma deve tener conto anche delle informazioni complementari fornite dal soggetto passivo. D'altronde, le direttive CE assimilano alla fattura tutti i documenti o messaggi che modificano e fanno riferimento in modo specifico ed inequivocabile alla fattura iniziale. Incombe, tuttavia, su colui che chiede la detrazione dell'IVA l'onere di dimostrare di soddisfare le condizioni per fruirne e, per conseguenza, di fornire elementi e prove, anche integrativi e succedanei rispetto alle fatture, che l'Amministrazione ritenga necessari per valutare se si debba riconoscere o no la detrazione richiesta. Nel caso in esame, la CTR aveva dato atto della circostanza che il contribuente avesse adempiuto l'onere probatorio fornendo la dimostrazione dell'esistenza di contratti che, in riferimento alle fatture ritenute succinte dall'Ufficio, evidenziavano puntualmente il contenuto dei lavori realizzati, il tempo ed il luogo della prestazione, il personale impiegato nonché le ore lavorate.
Giurisprudenza
30 GENNAIO 2020 alle 11:00
Le cartelle di pagamento contenenti Contributi Inps si prescrivono in 5 anni
Cassazione con l'ordinanza n. 840/2019
Il termine di 10 anni non vale per la prescrizione delle cartelle Inps, ma per la procedura amministrativa di discarico per inesigibilità in materia fiscale.
La Cassazione con l'ordinanza n. 840/2019 (qui allegata) respinge il ricorso dell'Agenzia delle Entrate che, contrariamente a quanto affermato dalla corte d'Appello, afferma che il termine prescrizionale delle cartelle Inps non sia quello decennale, bensì quello quinquennale. Il termine prescrizionale di 10 anni fa infatti riferimento, dopo una profonda revisione legislativa dei rapporti intercorrenti tra ente impositore e incaricato della riscossione, alla procedura amministrativa di discarico per inesigibilità applicabile tra l'altro, solo in materia di imposizione fiscale.